La voce di Abuna Raed Abusahlieh – Reneh, Galilea

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di Chiara Garavelli

La prima “voce” che sentiremo nel nostro viaggio attraverso la terra di Palestina è quella di Abuna Raed: palestinese, arabo, cristiano, questi i tre aggettivi con i quali è solito descriversi e presentarsi. Abuna (che possiamo tradurre con l’appellativo di Padre) Raed è il parroco di Reneh, un piccolo paese della Galilea situato tra Nazareth e Cana. La scelta di partire proprio da questa figura nasce per due ragioni, una cronologica, poiché Raed è stato il primo palestinese che ho avuto la possibilità di incontrare, e la seconda più concettuale: non si può pensare di analizzare la questione palestinese senza considerare anche l’importanza del piano religioso. Alle volte la nostra arroganza occidentale ci porta a valutare il resto del mondo con il nostro metro di misura e quindi a ritenere che ovunque la religione sia considerata come qualcosa di personale totalmente scisso dalla vita pubblica. In Palestina questa differenza non esiste: Politica, Storia e Religione spesso si fondono e per comprenderne una bisogna passare necessariamente anche attraverso le altre. Per questo motivo la nostra storia incomincia con un prete arabo, che in qualche modo mi ha insegnato cos’è la resistenza di un intero popolo. La comunità cristiana in Palestina rappresenta meno del 2% della popolazione (in Cisgiordania scende all’1.4%, circa 50.000 persone), ma non vuole essere considerata una minoranza poiché abita quella regione da sempre, dalla sua costituzione nel primo secolo D.C. . Abuna Raed è solito dire che “non siamo stranieri, non abbiamo paura, staremo qui per l’eternità”. “Noi siamo il 5° Vangelo” - continua Abuna Raed - “Viviamo all’ombra della Croce. Con la differenza che Gesù è rimasto sulla croce per circa tre ore, mentre la nostra dura da quasi un secolo”. Quella croce che dura da quel 14 maggio del 1948 in cui David Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele. Parlando dei vari popoli che si riconoscono nella nazionalità palestinese Abuna Raed spiega come essi siano stati capaci di vivere assieme sullo stesso territorio per centinaia di anni, seppur senza mai integrarsi, fino all’ingresso nei giochi del neonato stato israeliano. Di conseguenza abbiamo poi discusso dei principali punti per cui la visione della “Land for Peace” (ovvero pace in cambio di territori, dalla Risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), che invita al ritiro militare israeliano e al reciproco riconoscimento dei due stati, a distanza di cinquant’anni, non risulta funzionare:

- Il primo elemento che salta all’occhio è che in Cisgiordania si trovano circa 650.000 coloni che vivono all’interno di insediamenti (alcuni dei quali hanno ormai le dimensioni di vere e proprie cittadine) che non sono ritenuti legali dal punto di vista del diritto internazionale, benché siano in maggior parte riconosciuti da Israele;

- Abbiamo già evidenziato l’importanza del piano religioso nella questione palestinese e qui il nodo viene al pettine: per i Palestinesi accettare la depredazione delle proprie terre implicherebbe accettare altresì la propaganda israeliana del popolo eletto, prescelto da Dio e di conseguenza accettare di essere i “non prescelti”;

- Il muro di separazione, iniziato nel 2002 e in continuo aggiornamento, è andato molto oltre la teorizzata Linea Verde che avvolge il contorno della Cisgiordania (discostandosene in alcuni punti fino a 28 Km), poiché il suo scopo non è difensivo, come viene ufficialmente riferito da Israele, bensì quello di separare i due popoli, includere territori non ufficialmente assegnati ad Israele e rendere il tutto un fatto compiuto sul terreno;

- In conclusione, accettare di cedere ufficialmente ad Israele tutte le zone attualmente sotto il suo controllo militare significherebbe per il popolo palestinese accontentarsi del 14% dei propri territori originali.

Per questo motivo, secondo Abuna Raed, la soluzione dei due stati per due popoli è già morta o meglio era morta in partenza. Diventa di conseguenza necessario prendere in considerazione la One State Solution, ovvero un solo stato per due popoli (arabo e israeliano) e tre religioni (islam, ebraismo e cristianesimo), ognuno con la propria nazionalità e il proprio culto. La religione non deve essere pretesto di divisione bensì motivo di unione, poiché tutte e tre le fedi discendono dallo stesso patriarca Abramo, che porta quindi i vari credenti delle stesse a ritenersi in qualche modo “fratelli” (di qui “religioni abramitiche”). Nonostante la sua visione di fratellanza, Abuna Raed rimane una persona molto pratica e ci spiega anche che sebbene quella appena discussa sia l’unica soluzione a suo dire percorribile, probabilmente anch’essa non sarà attuabile, soprattutto tenendo conto della direzione politica in cui sta andando lo stato israeliano. Ricordiamo infatti che dal 19 luglio 2018 Israele è uno stato ebraico, tutti gli abitanti arabi sono cittadini di serie B e l’arabo non è più lingua ufficiale. Va considerata anche la diffusa paura di quella che Abuna chiama “bomba democratica” araba palestinese, che impatterebbe in maniera massiccia la politica dell’ipotetico nuovo stato. Ad ogni modo, secondo Abuna Raed, la conclusione del conflitto non potrà passare attraverso la soluzione militare, perché Israele non riuscirà mai a schiacciare un popolo che rivendica i suoi diritti. Su questo punto credo che, a prescindere dalle nostre opinioni sulla questione, possiamo dare ragione ad Abuna, lo hanno dimostrato settant’anni di occupazione e lo stanno ricordando i tragici eventi degli ultimi giorni... PS: ma di quale birra parlava Abuna? Della birra di Taybeh, il primo birrificio della Palestina, fondato nel 1994, che esporta in diversi Paesi del mondo, tra i quali appunto l’Italia. Si basa sull’idea che la resistenza passi attraverso la manifestazione al mondo della propria presenza. Quale strada migliore di quella di far fiorire un’attività commerciale in una terra che per molti è data come “senza futuro”?

“Produrre birra vuol dire esistere. Ed esistere vuol dire resistere.”