Biden: la nuova anima dell’America
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Di Niccolò Monesi
Martedì scorso, dopo aver lasciato il suo amato Delaware, Joe Biden avrebbe voluto viaggiare verso
Washington sull’Amtrak, il treno che per più di quarant’anni lo ha accompagnato lungo tutta la sua
straordinaria vita politica. Da quando, nel 1973 da neoeletto senatore, ritornava ogni sera a
Wilmington, Delaware, per stare vicino ai figli Beau e Hunter, rimasti soli e orfani dopo la tragica
scomparsa della loro madre Neilia e della sorellina Naomi. Fino al 2009 quando giurò come vice
presidente degli Stati Uniti, al fianco di Barack Obama, l’Amtrak è stato, infatti, per Joe Biden il
suo
fedele compagno di viaggio. E sull’Amtrak, Biden, avrebbe voluto iniziare anche questa nuova
avventura.
Ma non ha potuto farlo. Le ferree misure di sicurezza adottate dopo l’assalto a Capitol Hill del 6
gennaio gliel’hanno impedito. Era infatti una Washington blindata quella che mercoledì scorso ha
accolto
Joe e Jill Biden; una Washington ferita nel profondo da un attacco senza precedenti al cuore delle
istituzioni della più grande democrazia al mondo. E mentre, con la mano sinistra poggiata
sull’antica
Bibbia di famiglia, giurava di preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti,
Joe
Biden sapeva in cuor suo di avere dinnanzi a sé una sfida immane. Pochi altri presidenti nella
storia si
sono trovati ad affrontare, nello stesso momento, crisi sociali, politiche, sanitarie e climatiche,
come
quelle che dovrà affrontare Biden nei prossimi anni.
Il neoeletto presidente trova un paese più che mai diviso e lacerato, ferito come pochi altri da una
pandemia che ha sconvolto l’intero globo terrestre, fiaccato dagli scontri sociali e frammentato da
una
fratricida lotta politica che perdura ormai da anni. E se è pur vero che Donald Trump è stato
“soltanto”
l’apice di un inasprimento e di un’estremizzazione nella vita politica americana che ha inizio ormai
dagli anni ’90, è altrettanto vero che nessun altro politico americano prima di lui si era spinto
mai
tanto oltre nello spregiudicato attacco alle istituzioni democratiche. L’assalto al Campidoglio di
mercoledì 6 gennaio è e resterà a lungo una ferita difficile da rimarginare, ma Biden ci proverà e,
per
la sua storia personale e per il suo carattere, è probabilmente l’uomo più giusto per farlo.
“Restore
The Soul Of America”: questo era il suo slogan usato durante la campagna elettorale. Uno slogan non
certo carismatico e coinvolgente come lo “Yes We Can” di Obama, né nostalgico e nazionalista come il
“Make America Great Again” di Trump, ma è lo slogan che più di ogni altro ci permette di comprendere
ciò
che sarà il faro dell’operato del nuovo presidente nei prossimi quattro anni.
Già nel tardo pomeriggio di mercoledì, il neo-insediato inquilino della Casa Bianca ha varato una
serie
di importanti ordini esecutivi che indicano in modo chiaro ed inequivocabile la strada che
l’amministrazione Biden intraprenderà nei prossimi anni. Dalla revoca degli accordi di Parigi, al
“Muslim ban”, dall’uscita dall’OMS, sino al via libera al controverso oleodotto Keystone tra Canada
e
USA. Con un semplice tratto di penna, Biden ha cancellato alcune delle più controverse scelte di
Trump
negli ultimi anni, ma il percorso resta ancora molto lungo e irto di insidie. La maggioranza
democratica, sia alla Camera dei Rappresentanti che al Senato, potrà sicuramente dare al Presidente
un
indubbio vantaggio almeno nei primi due anni di mandato, permettendogli di approvare provvedimenti
chiave per il rilancio dell’economia americana, per il sostegno alle famiglie più in difficoltà,
così
come per la realizzazione di un’ampia riforma sanitaria, ma l’ostruzionismo dei repubblicani, un
male
ormai endemico della politica americana, rischia di rallentare notevolmente l’intero processo
legislativo. Inoltre, va ricordato, il Partito Democratico resta un partito profondamente diviso.
Basti
pensare a come in Senato, Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, formalmente indipendente,
ma
membro del “Democratic Caucus” (una sorta di gruppo parlamentare), sieda al fianco di Joe Manchin,
storico senatore antiabortista del West Virginia, che, in casa nostra, sarebbe il perfetto esponente
di
un qualsiasi partito conservatore. La sfida dinnanzi alla nuova amministrazione non sarà semplice:
Biden
si troverà più volte a dover scegliere se scendere a compromessi con i repubblicani o seguire la
sempre
più numerosa (e rumorosa) base progressista delle coste, che proprio nel senatore Sanders ha avuto
il
suo campione in questi anni e che dovrà presto trovare un nuovo volto a rappresentarla.
Nonostante la sua lunga storia di politico moderato e centrista, il programma elettorale di Biden è
stato più volte definito come il più progressista di sempre, o per lo meno, il più progressista dai
tempi del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. E la sfida che spetta all’amministrazione Biden non
è
molto diversa da quella che dovette affrontare FDR, il quale prese in mano le redini di un paese
lacerato dalla Grande Depressione. Ma il paese che ha di fronte Biden oggi è enormemente differente
rispetto a quello di quasi un secolo fa. Nel 1932 Roosevelt stravinse le elezioni e, se anche era
osteggiato da una larga fetta dei repubblicani e dalla Corte Suprema, poté comunque contare su un
ampio
sostegno nell’opinione pubblica, supporto che gli permise di intraprendere il più innovativo e
rivoluzionario programma economico e sociale nella storia degli Stati Uniti. Biden ha vinto le
elezioni
con uno scarto di oltre 7 milioni di voti, è vero, ma a causa dello spudorato avvelenamento della
democrazia cui abbiamo assistito in questi mesi, una buona parte dei politici avversari, nonché una
larga fetta dell’elettorato, lo considera di fatto un presidente illegittimo, il che rende la sua
sfida
ancor più gravosa e impegnativa. Ma forse c’è qualcosa, come spesso avviene in America, che può
confortare Biden e rassicurare tutti noi spettatori, lontani ma interessati. Per settimane, Donald
Trump
e buona parte dei repubblicani hanno provato in tutti i modi a sovvertire l’esito delle elezioni
presidenziali di novembre a colpi di ricorsi e con una pressante ed estenuante campagna ai limiti
del
sovversivo. Ma la democrazia americana ancora una volta ha retto, ha mostrato la sua tempra.
Riecheggiano, infatti, le parole della ventiduenne poetessa Amanda Gorman, pronunciate durante la
cerimonia di inaugurazione, “while democracy can be periodically delayed, it can never be
permanently
defeated ”.