Craxi, luci e ombre di un socialista mediterraneo

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di Niccolò Monesi

Nell’immaginario collettivo, Bettino Craxi è e sarà sempre irrimediabilmente legato allo scandalo di Tangentopoli e alla conseguente indagine da parte del pool di Mani Pulite che ne decretò la fine politica. Ma se è pur vero che, nel giudicare un politico come Craxi, risulti alquanto difficile distinguere le vicende giudiziarie dalla sfera politica, in questo articolo proveremo a focalizzare la nostra attenzione sulla seconda, analizzando luci e ombre di una figura emblematica della nostra storia repubblicana.

Divenuto segretario del Partito Socialista Italiano (PSI) nel luglio del 1976 a soli 42 anni, Craxi prese le redini di un partito in forte crisi identitaria. Poco più di un mese prima, le elezioni politiche avevano visto il PSI scendere al di sotto della soglia del 10%, a fronte di una netta affermazione del Partito Comunista Italiano (PCI) di Enrico Berlinguer, che si proponeva ormai come unica alternativa al predominio democristiano. Sin dagli inizi della sua segreteria, Craxi cercò di presentare il PSI come un moderno partito di centro-sinistra, alternativo alla Democrazia Cristiana, ma fortemente anticomunista. Nonostante il PCI di Berlinguer si stesse in quegli anni sempre più smarcando dal Marxismo-Leninismo sovietico, Craxi riteneva i comunisti, sia per motivi ideologici che per meri fini elettorali, ancora troppo legati a Mosca e ad una dottrina politica che lui stesso definì, in un saggio del 1978, “un’assurdità antidiluviana”. Sotto la sua leadership, lo spostamento verso il centro del PSI risultò plasticamente evidente, a partire dalla modifica del simbolo di partito: nel 1978 la falce e il martello, che ancora comparivano nel logo dei socialisti, furono notevolmente ridimensionati, mentre un garofano rosso, in onore della rivoluzione portoghese del 1974, prese prepotentemente il centro della scena. La falce e il martello sarebbero poi stati definitivamente rimossi di lì a qualche anno, nel 1987. L’aperta ostilità nei confronti del PCI crebbe negli anni in cui Craxi ricoprì l’incarico di Presidente del Consiglio. Alle elezioni del giugno 1983, infatti, il politico milanese riuscì a riportare il PSI sopra l’11% e, complice un notevole calo della Democrazia Cristiana, fiaccata da anni di lotte interne tra correnti, fu scelto per guidare una coalizione di governo formata dai cinque principali partiti (furono esclusi comunisti e missini) e nota, per l’appunto, con il nome di “Pentapartito”. Ma lo scontro più acceso con i comunisti si realizzò proprio qualche mese dopo il suo insediamento. Nel febbraio 1984, il governo Craxi approvò infatti il taglio di tre punti della cosiddetta “scala mobile”, uno strumento volto ad indicizzare automaticamente i salari in funzione dell’inflazione, al fine di contrastare la diminuzione del potere di acquisto. Il taglio, realizzato anche grazie al supporto dei sindacati, ma duramente e aspramente criticato dal PCI, contribuì ad innalzare un muro ideologico ormai insormontabile tra i due principali partiti della sinistra italiana e tra i due rispettivi leader, che sfociò, in quello stesso anno, nella pioggia di fischi rivolti a Berlinguer durante il congresso socialista di Verona, fischi dai quali Craxi non prese mai le distanze. Nel giro di pochi mesi, il PCI raccolse le firme necessarie per indire un referendum abrogativo, che fu in ogni caso respinto, con il 54% dei voti, segnando un controverso, ma inequivocabile, punto a favore per la politica economica craxiana.

È però la politica estera il campo in cui Craxi si distinse forse maggiormente durante il suo mandato. Fortemente coadiuvato dal suo Ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, Craxi proseguì la sua azione nel solco dell’europeismo e dell’atlantismo, che avevano contraddistinto la politica estera italiana nei decenni precedenti. Coltivò altresì importanti e stretti rapporti con il mondo arabo e con i suoi leader, con i quali condivideva, oltre ad una simile visione strategica del Mediterraneo, anche la medesima fede socialista. Come premier, Bettino strinse forti (e controversi) legami con Muammar Gheddafi, tant’è che, nell’aprile del 1986, fu lo stesso Craxi a informare preventivamente il dittatore libico di un imminente raid americano su Tripoli con l’obiettivo di eliminarlo. Anche il leader palestinese Yasser Arafat fu per lungo tempo uno stretto alleato del segretario socialista, il quale in più occasioni sposò apertamente la causa palestinese. Ma probabilmente l’acme della politica estera craxiana è rappresentata dalla crisi di Sigonella. L’episodio risale all’ottobre del 1985, a seguito del dirottamento di una nave da crociera italiana, la “Achille Lauro”, da parte di quattro militanti palestinesi. In quell’occasione i terroristi uccisero un turista americano disabile, provocando l’immediata reazione del presidente Ronald Reagan. Il governo italiano riuscì, nel frattempo, a mediare con i quattro dirottatori, i quali erano stati prelevati e caricati su un aereo egiziano. Il Boeing fu però costretto all’atterraggio all’aeroporto di Sigonella, in Sicilia, da parte di due aerei militari americani. Un gruppo di Carabinieri circondò immediatamente il velivolo, mentre dagli aerei militari americani scesero dei soldati della Delta Force. Dopo qualche momento di tensione, il presidente Reagan contattò telefonicamente il premier italiano, annunciando di voler chiedere l’estradizione per i responsabili della morte del cittadino americano. Craxi respinse la richiesta, sostenendo che i reati fossero stati commessi su una nave italiana in acque internazionali, pertanto al di fuori dalla giurisdizione americana, e costringendo altresì i militari statunitensi a ritirarsi.

L’eredità politica di Craxi è, come prevedibile, ancora oggetto di un acceso dibattito tra gli addetti ai lavori. Da un lato, i suoi sostenitori ne enfatizzano i successi in politica estera, il piglio riformatore e i buoni risultati dell’economia italiana che, nel 1987, portarono il paese a superare la Gran Bretagna, divenendo così la quinta potenza economica mondiale. Dall’altro lato, i detrattori ne sottolineano soprattutto le inevitabili vicende giudiziarie, che hanno visto Ghino di Tacco (come soleva definirlo Scalfari nei suoi editoriali) essere condannato per corruzione e finanziamento illecito, con sentenze passate in giudicato, parzialmente “riviste” dalla Corte EDU di Strasburgo; ma anche l’esplosione del debito pubblico italiano avvenuta sotto il suo mandato che arrivò, nel 1987, a sfiorare il 90% del PIL, rispetto alla soglia del 60%, su cui si assestava all’inizio del quadriennio craxiano. Il leader socialista viene, ancor oggi, criticato anche a causa di uno stile politico a dir poco accentratore e per certi versi autoritario, stile che avrebbe poi contraddistinto molti altri leader repubblicani nei decenni a venire. Da un punto di vista invece squisitamente politico, la più importante e talvolta sottovalutata eredità craxiana può forse essere individuata nel “socialismo mediterraneo”, il quale, traendo ispirazione dai fondamentali del socialismo democratico e della socialdemocrazia e saldandoli ad un forte radicamento nel bacino del Mediterraneo, aveva l’obiettivo di realizzare una sempre crescente collaborazione tra i paesi latini, contrapponendoli all’asse franco-tedesco, che, da sempre, esercitava una notevole influenza sulle politiche comunitarie. E se è pur vero che lo stesso Craxi, erroneamente, assunse negli anni una posizione scettica nei confronti della moneta unica, la sua idea, rinnovata e migliorata, è probabilmente ancora oggi la via più praticabile per realizzare un’Unione Europea più equa e solidale, incentrata maggiormente sulla crescita e sulla lotta alle disuguaglianze e non soltanto sul rigido rispetto degli assiomi economici.