Fermarsi: il giusto modo per ripartire? Un’analisi sul blocco dei licenziamenti

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a cura del tavolo Lavoro ed Economia

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Con l’attenuarsi della pandemia e la graduale ripresa delle attività economiche (le stime al riguardo fortunatamente sono confortanti), si avvicina anche la fine dell’efficacia di un provvedimento che ci ha silenziosamente accompagnato durante tutto questo anno e mezzo di Covid. Si tratta del blocco dei licenziamenti, ossia quella misura, introdotta originariamente dal D.L. 18/20 in concomitanza alle misure restrittive, che ha impedito il licenziamento dei lavoratori per cause economiche, fintanto che sarebbe durata la situazione di emergenza sanitaria. È innanzitutto opportuno fare un chiarimento su questo provvedimento, voluto dal Governo Conte nelle primissime fasi della pandemia, ma poi prorogato più volte, infine anche da Draghi. Oggetto di questo blocco sono i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ossia quelli motivati dalle c.d. “cause economiche”. Ciò significa che non tutte le cessazioni dei rapporti di lavoro sono state impedite. È questo il caso, ad esempio, delle dimissioni (ossia quando è il dipendente a voler chiudere il rapporto di lavoro) oppure il caso in cui il dipendente si è reso colpevole di gravi inadempimenti. Ad essere impediti dal provvedimento sono, invece, i licenziamenti motivati da problemi economici od organizzativi dell’impresa, ivi compresi i licenziamenti collettivi (cioè quelli che, per le medesime motivazioni, coinvolgono più di 5 persone). Tuttavia, va ricordato che, in presenza di contratti di lavoro a tempo determinato, non è opportuno parlare di licenziamento qualora alla scadenza non seguisse un rinnovo: in tali casi quindi, il divieto di licenziamento non ha impedito ai datori di lavoro di non rinnovare contratti a tempo determinato giunti a scadenza.

Risulta però evidente che se l’impresa fosse costretta allo stop, ma dovesse comunque continuare ad erogare i compensi ai lavoratori, il problema si sposterebbe inevitabilmente sulla retribuzione di questi ultimi. A tal fine, pertanto, congiuntamente al blocco dei licenziamenti, si è deciso di implementare misure e ammortizzatori sociali (adeguando gli istituti già presenti come la Cassa Integrazione Guadagni ordinaria, in deroga e straordinaria, l’Assegno Ordinario, la NASpI, ecc.). Con essi è stato quindi possibile assicurare, a spese dello Stato, un reddito ai lavoratori, senza che tali costi gravassero completamente sui datori di lavoro costretti alla chiusura delle proprie attività.

Sebbene il rapporto chiusure forzate-blocco dei licenziamenti-ammortizzatori sociali possa risultare perfettamente coerente, in realtà gli effetti di tali provvedimenti sono molto più complessi. Innanzitutto, è bene considerare che per via di tale sospensione le imprese si trovano impossibilitate ad attuare modifiche nella propria struttura organizzativa e quindi nei propri business. Il che, in contesti altamente competitivi, rappresenta un costo e uno svantaggio notevole. Ciò si ripercuote poi in una riduzione degli investimenti che mal si adatta all’economia di oggi, che richiede alle aziende rapide trasformazioni tali da garantirne il giusto dinamismo e l’adeguata flessibilità. Ma soprattutto il divieto di licenziamento contribuisce a favorire un immobilismo sociale oltre che economico, che si ripercuote soprattutto sulle categorie di cittadini già più deboli prima della pandemia. Infatti, ad un blocco dei licenziamenti e ad una scarsa propensione ai nuovi investimenti, corrisponde una riduzione delle nuove assunzioni, allontanando le possibilità di chi già era disoccupato prima della pandemia (c.d. outsiders) a trovare in tempi brevi un’altra occupazione. Oltre al crollo delle assunzioni, inoltre, bisogna tenere conto che molti lavoratori hanno comunque perso il lavoro a seguito della pandemia, in particolar modo a seguito dei mancati rinnovi di contratti a tempo determinato e/o della definitiva chiusura dell’impresa per cui lavoravano. Va da sé che queste cessazioni hanno colpito prevalentemente i lavoratori precari o quelli impiegati in settori più fragili. E in Italia queste posizioni lavorative, già di per sé poco allettanti, sono ricoperte specialmente da chi non trova altre occupazioni, quindi i giovani e le donne. Categorie quest’ultime che si sono trovate così a peggiorare ulteriormente una situazione già drammatica. In particolare, sul fronte di genere, nel 2020 il calo delle attivazioni dei contratti di lavoro delle donne segna −49,0% (contro il −42,7% degli uomini), mentre il tasso di occupazione dei giovani under 35 è del −21% rispetto a quello degli over 50 (differenza che nel 2019 era di 19,3%).

Certamente però non bisogna dimenticarsi che lo stop alle attività si è reso necessario dall’emergenza sanitaria. E in tale contesto obbligato, il blocco dei licenziamenti ha permesso che, almeno nominalmente, il tasso di disoccupazione italiano nel 2020 si mantenesse sul 9%, addirittura leggermente più basso rispetto ai livelli pre-Covid (nel 2019 era al 9,8%). Tuttavia, andando a fondo, non si può non notare che a tale stabilità della disoccupazione abbia contribuito anche la riduzione del numero degli attivi, ovvero il numero di coloro che cercano attivamente lavoro. In altre parole, la diminuzione del lavoro è stata accompagnata da un’altrettanta riduzione di cittadini che cercano attivamente un lavoro e ciò ha permesso che il tasso di disoccupazione rimanesse stabile rispetto al 2019, ma solo matematicamente. Ciononostante, bisogna comunque riconoscere che la sospensione dei licenziamenti ha contribuito ad evitare una carneficina occupazionale che altrimenti si sarebbe sicuramente verificata.

In sintesi, si può quindi affermare che con il blocco dei licenziamenti è stata evitata una crisi generalizzata su tutte le categorie dei lavoratori, scaricando però la pressione finanziaria sugli ammortizzatori sociali (dunque lo Stato), sugli outsiders e sui lavoratori più deboli. Risulterà, dunque, evidente che i giovani sono stati quelli doppiamente penalizzati dal provvedimento: in quanto lavoratori (o aspiranti tali), sempre più emarginati, e in quanto cittadini del domani su cui graverà il debito pubblico, che nella fase odierna ha segnato un incremento significativo. Chi, invece, ha tratto vantaggio da questa misura sono gli insiders del mondo del lavoro, in particolare i lavoratori a tempo indeterminato impegnati stabilmente nel settore privato. E da questi ultimi dobbiamo partire per comprendere molte delle motivazioni politiche che hanno spinto il Governo Conte a emanare questo provvedimento. Tale categoria di cittadini-lavoratori, infatti, gode di alcune caratteristiche che nelle dinamiche politiche sono parecchio importanti: è relativamente numerosa, è attenta alle vicende politiche ed esercita con frequenza il diritto di voto. Ne consegue che è una categoria che gode di un discreto peso politico.

Ad ogni modo, pare che lo stop ai licenziamenti sia stato pacificamente accettato dalla cittadinanza, dalla quale generalmente non si sono sollevate grandi critiche. Con la mediazione del Presidente Draghi, a seguito delle tensioni relative al D.L. sostegni bis, resterebbe la scadenza del blocco dei licenziamenti fissata al 30 giugno e verrebbe meno la proroga al 28 agosto per le aziende che avessero chiesto la Cig Covid dall’entrata in vigore del decreto entro fine giugno. Sarebbe confermata invece la possibilità per le imprese di utilizzare la cassa integrazione ordinaria, dal primo luglio, senza dover pagare le addizionali fino alla fine del 2021 con l’impegno a non licenziare per il periodo in cui ne usufruiscono. Un nuovo compromesso ancora potrebbe essere quello della proroga selettiva del blocco dei licenziamenti. La discussione con le parti sociali e le associazioni di categoria è ancora in atto.

Sicuramente comunque è presto per dare un giudizio complessivo sull’efficacia della misura e, in ogni caso, tale valutazione dovrà tenere conto di tutte le variabili: non potremo giudicare positivamente politiche di questa portata solamente guardando al numero degli occupati, se poi vengono tralasciate analisi di importanza strategica come, ad esempio, quella inerente i giovani o la questione di genere. Sembra pacifico però che, nonostante i risultati nel suo complesso positivi, il blocco dei licenziamenti debba rimanere una politica solo di carattere emergenziale. La politica dovrà quindi resistere alla tentazione di farsi confortare da (eventuali) dati positivi per introdurre limitazioni permanenti al licenziamento per motivi economici. Il dossier è ancora sul tavolo del Governo e la maggioranza sul punto continua a dividersi…!