La grammatica, una noiosa alleata per la parità di genere

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di Valentina Paganelli

L’ora di italiano ci perseguita tutti sin dall’infanzia e se è vero che qualcuno di noi si sarà emozionato leggendo Dante o Leopardi, è più difficile credere che qualcuno possa affermare in maniera non ironica di aver amato lo studio della grammatica. Generazioni di studenti si sono chieste infatti a cosa servisse studiare la propria lingua dato che, in assenza di problemi di sviluppo cognitivo, chiunque è in grado di impiegarla correttamente quando entra in contatto con la prima ora di italiano della sua vita. Infatti tutti noi a 6 anni – e probabilmente anche prima – eravamo in grado di dire il gatto mangia piuttosto che il gatto mangiano senza che nessuno ci avesse spiegato che la parola gatto era un nome singolare. Eravamo dunque già in grado di accordare il verbo al suo soggetto e probabilmente eravamo anche in grado di accordare un aggettivo e un articolo al nome cui si riferivano, creando quindi un sintagma nominale corretto come ad esempio una bambina buona piuttosto che formarne uno scorretto del tipo una bambino buona.

Sorge dunque a questo punto un dubbio molto ingenuo: perché per molti parlanti della lingua italiana appare complesso o addirittura scorretto dire una brava direttrice d’orchestra? Di fatto non si sta facendo altro che accordare un sintagma nominale marcandone tutti i termini per genere, così come si è fatto nel sintagma una bambina buona. Anche in questo caso, quindi qualunque ‘ora di italiano’ dovrebbe apparire superflua poiché andrebbe solamente a ribadire l’ovvio. Non si vuole quindi aprire una discussione grammaticale sull’impiego dei nomi di mestiere al femminile nella lingua italiana, significherebbe solo annoiarci tutti, ribadendo qualcosa che al nostro cervello è già molto chiaro sin da quando abbiamo appreso la nostra lingua madre. Ciò che si vuole fare è invece approfondire brevemente cosa sia la lingua oltre la grammatica. L’uso del linguaggio è primariamente uno strumento fondamentale di comunicazione, sia implicita che esplicita. Con le lingue quindi parliamo ma, allo stesso tempo, le scelte che compiamo tramite il loro impiego ci parlano. Cosa ci dice dunque il fatto che meccanismi grammaticali perfettamente legittimi come la flessione¹ per genere di determinati nomi (in particolare si fa riferimento a quelli di mestiere) venga percepita con astio da una fetta considerevole dei parlanti della lingua italiana? Probabilmente ci dice qualcosa di piuttosto scontato, cioè che molti italofoni faticano ad adattare l’impiego della propria lingua a mutate circostanze sociali. Ci dice dunque che molti italiani non riescono ad immaginare una donna in determinati ruoli di prestigio e dunque non riescono a nominarla correttamente. O peggio, ci dice che in quel ruolo ce la vedono e per riconoscergliene il merito la premiano con un titolo al maschile, vera espressione di capacità al di là del genere.

Riconoscere il merito di una persona al di là del genere è sacrosanto. Ciò che non lo è – e su cui molto poco si sente riflettere – è l’insieme di ragioni che vengono addotte per motivare le modalità attraverso cui garantire la parità di genere attraverso la nominazione linguistica. Chiediamoci dunque perché ci appaia scontato definire maestra una donna che insegna in una scuola primaria e non definirla maestro per riconoscere il suo valore al di là del genere. Perché maestra non ci sembra offensivo e direttrice invece sì? Perché, soprattutto, impiegare un nome di mestiere al femminile ci sembra in alcuni casi dequalificante? Non dipenderà mica dal sessismo sotteso, magari introiettato, nascosto dietro a scelte linguistiche di questo tipo? Sembra dunque che il professato desiderio di riconoscimento del valore del lavoro femminile sia una ragione davvero poco convincente se orientata alla risoluzione del dibattito in questione. Al contrario pare invece rafforzare l’egemonia di una nomenclatura di genere maschile per certi mestieri, storicamente appannaggio più di uomini che di donne, dando vita a veri e propri errori grammaticali relativi all’accordo di sintagma. Di fatto, come già Alma Sabatini scriveva nel 1986, spesso i parlanti attuano «resistenze che si oppongono a un qualsiasi cambiamento coscienzioso del proprio modo di parlare e di scrivere»². E preme sottolineare che le resistenze al mutamento linguistico non sono né una novità (si pensi alla famosa Appendix Probi) né, fortunatamente, un vero problema nella storia della lingua. Infatti le innovazioni, se ampiamente impiegate, vengono incluse in un sistema linguistico senza troppe storie e questo avviene soprattutto se le ‘novità’ riguardano uno strato della lingua tanto permeabile come quello del lessico.

La ragione principale cui infatti si ricorre per giustificare una scorrettezza grammaticale come il sindaco Maria Rossi è brava consiste nell’affermare che la parola sindaca, che consentirebbe un accordo coerente dell’apposizione al nome (testa del sintagma³ e dunque fautore dell’accordo) e all’aggettivo ad esso connesso, non esiste e che introdurla significherebbe attentare alla nostra lingua, provocando chissà quali problemi alla società in cui viviamo. Tuttavia, ci si dimentica spesso di aggiungere che tante parole non esistevano ed ora esistono. Ad esempio, per citare un termine recentemente entrato nel nostro sistema linguistico, la parola selfie. Non sembra, tra l’altro, che la società in cui viviamo sia crollata in conseguenza dell’accoglienza nella nostra lingua di questo anglismo, né tantomeno che nessuno conosca più l’italiano o il significato della parola autoscatto.

Inoltre citare esempi di nuove parole non dovrebbe nemmeno essere necessario in un caso come quello dei nomi di mestiere riferiti a soggetti di genere femminile. Infatti basterebbe applicare la flessione per genere grammaticale ai nomi maschili. Ed è dunque culturale e non grammaticale la scelta di non farlo. È culturale e non grammaticale percepire come legittimo il termine sarto ma non il termine ministra. È infine culturale percepire come corretta la polisemia⁴ del termine direttore che può essere colui che dirige una banca, una scuola, un circolo didattico o un’orchestra ma, allo stesso tempo, limitare invece la polisemia del termine direttrice, che per certi parlanti può accogliere solo alcuni dei significati del suo corrispettivo maschile.

Dunque, ovviamente, ognuno rimane libero di definirsi attraverso le parole che più lo rappresentano; nessuno però è libero di giustificare un impiego scorretto della propria lingua avvalendosi di motivazioni linguisticamente infondate. Ogni lingua infatti, parafrasando Hagège, pone frontiere diverse in livelli diversi del suo impiego e l’italiano non fa eccezione. La nostra lingua impone infatti che ciascun nome abbia un genere grammaticale e se per sedia e divano il genere grammaticale è arbitrariamente definito dalla grammatica, non è così per i nomi comuni che fanno riferimento agli esseri animati. Infatti la maggior parte dei morfemi grammaticali⁵ che definiscono i nomi di animati contengono nella nostra lingua l’informazione semantica del genere.⁶ E questo, date le discussioni che scatena, è un limite⁷ espressivo noioso ma linguisticamente non problematico.

La grammatica italiana riconosce quindi la perfetta legittimità di determinati termini, fino a ieri forse meno necessari e diffusi (di cui ministra può essere un esempio) e in ragione di ciò attualmente percepiti come cacofonici o “strani”. Nella nostra lingua quindi, checché erroneamente se ne dica in giro, i limiti della grammatica non riguardano la flessione⁸ dei nomi di mestiere al femminile. Da un punto di vista linguistico ci si può chiedere se un sistema che non separi nettamente una categoria linguistica, come il genere grammaticale, dalla definizione di una categoria socialmente costruita, come l’identità genere, sia un sistema produttivo, coerente o tipologicamente naturale. Ma questa è un’altra storia, su cui i linguisti hanno riflettuto e continueranno a riflettere, e che nulla ha a che vedere col futuro delle prossime ministre e sindache.

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