Libia: dieci anni dopo non è ancora tempo per la pace

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di Alessandro Crisci

Sono passati dieci anni dallo scoppio della primavera araba, inaugurata dalla cosiddetta ‹‹Rivoluzione dei gelsomini›› tunisina, che ha dato vita a sconvolgimenti politici e culturali nel Maghreb – Algeria, Libia, Egitto – e nel vicino Medio Oriente – Yemen, Siria, Arabia saudita, Giordania, Libano, Kuwait e Bahrein – portando a dirompenti effetti economico-politici in tutta l’area del Mediterraneo, non lasciando indenne anche il vecchio continente. Tutte le nazioni citate hanno visto crescere al proprio interno un forte malcontento popolare sfociato, nel corso del 2011, in più o meno importanti movimenti di piazza a seconda dei diversi teatri. L’effetto domino che ha avuto la Tunisia nei confronti degli stati nordafricani e mediorientali è spiegato da una comunanza nel sistema politico ed economico: la volontà delle popolazioni di avviare un processo di democratizzazione in contrasto a regimi spesso longevi, oppressivi, politicamente autoritari ed economicamente arretrati. L’analisi che si cerca di portare avanti in queste righe si incentra sull’unico Paese che, nel contesto delle primavere arabe, ha visto scoppiare al proprio interno una vera e propria guerra civile, la Libia. È pacifico affermare che anche la Siria ha visto e vede tutt’ora uno scontro armato fratricida, ma il caso libico è particolare in quanto i movimenti di piazza, trasformatosi rapidamente in milizie ribelli, sono riusciti nell’intento di far crollare l’ultraquarantennale regime di Gheddafi. Come si è giunti, nel 2011, alla fine del regime di Gheddafi e in che situazione si trova oggi la Libia?

La Libia rappresenta una realtà molto complessa da analizzare se non si è a conoscenza della sua storia e di alcuni tratti della sua cultura. Innanzitutto, si tratta di un Paese composto da una moltitudine di livelli identitari. Il primo, ovviamente, è quello nazionale, il secondo, invece, è regionale – le tre regioni della Libia (Tripolitania, Cirenaica e la zona meridionale desertica del Fezzan) erano tre entità autonome e indipendenti prima dell’occupazione italiana del secolo scorso – e l’ultimo è quello delle singole tribù di ciascuna regione. Le tribù hanno sempre avuto un ruolo importante all’interno della società libica. Pur non avendo compiti politici, queste ultime si occupano, per esempio, dell’organizzazione e dell’amministrazione del territorio e della risoluzione di controversie tra cittadini. Il Colonnello Gheddafi è sempre riuscito a tenere sotto controllo le diverse tribù, non sottovalutando mai l’importanza e il ruolo che rivestivano nella società civile. Con la caduta del regime, tuttavia, anche i tre livelli identitari si sono frantumati, a causa delle debolissime istituzioni statali. La debolezza istituzionale interna del regime deriva dal fatto che la Libia era un cosiddetto ‹‹rentier state››, ovvero uno stato che basa le proprie entrate sulla vendita di risorse naturali. Si tratta di una caratteristica politica che impone ai cittadini un patto sociale – tipico delle monarchie del Golfo – in cui non viene chiesto loro il pagamento di tasse, in cambio, però, di non interferire nella gestione del potere.

Le potenze occidentali, dopo un inizio coinvolgente, hanno perso mordente sulla situazione nordafricana. Nel 2011, Gran Bretagna e Francia sono state le più agguerrite fautrici dell’intervento armato in Libia a fianco dei ribelli, lasciando poi il comando dell’operazione ‹‹Unified Protector›› alla Nato, in seguito alle risoluzioni 1970 e 1973 dell’Onu, a salvaguardia della popolazione civile, che di fatto ha legittimato l’intervento in base al cosiddetto ‹‹responsabilty to protect›› sancito dalla comunità internazionale negli anni Novanta. In seguito all’intervento per esautorare il regime di Gheddafi e all’instaurazione di un governo provvisorio di unità nazionale, l’attenzione occidentale nella regione è andata scemando, fino al 2014, l’anno che ha spaccato letteralmente il Paese in due. Le elezioni politiche – caratterizzate da una bassissima partecipazione elettorale – hanno visto lo spostamento di una camera parlamentare nella città orientale di Tobruk e la presa di posizione del generale Haftar, pronto a fronteggiare gli islamisti di Tripoli, arrivando fino alla formazione di due esecutivi, entrambi riconosciuti a livello internazionale (benché solamente il governo di Tripoli sia riconosciuto dall’Onu, Haftar può vantare l’appoggio di stati importanti nell’area medio orientale – come gli Emirati arabi, l’Arabia saudita e l’Egitto – e delle simpatie di Francia e Russia). Se si può dire che gli Stati Uniti non abbiano mai prestato un’eccessiva attenzione alla questione libica – il secondo mandato di Obama e la presidenza Trump hanno visto una progressiva riduzione della presenza americana nel medio oriente – rivestendo il ruolo di mero supporto logistico, l’Unione europea ha giocato una parte marginale ed eterogenea, non riuscendo a trovare una sintesi comune tra le diverse anime che la compongono (per esempio, Italia e Francia sostengono due governi differenti, la Germania, invece, è sempre stata contraria ad un intervento armato in Libia). È apparsa, inoltre, sin da subito la subalternità dell’Alto Rappresentante per gli affari europei e la politica estera e della stessa Commissione europea alla forza politica del Consiglio e degli stati membri che nell’ambito della politica estera rivestono ancora un ruolo primario e privilegiato.

Oggi la situazione in Libia vede sostanzialmente un congelamento del conflitto. Recentemente è stato approvato un comitato di transizione nazionale che dovrebbe portare alle elezioni nel mese di dicembre, tuttavia, la soluzione politica risulta decisamente lontana. La storia delle guerre civili insegna che solo una modesta percentuale di esse (una su cinque) si conclude con un accordo negoziato, mentre, nella maggioranza dei casi, i conflitti si concludono solo con la distruzione di una delle due parti. Il raggiungimento di un accordo negoziato è possibile solo grazie alla presenza di un attore terzo e neutrale che dovrebbe garantire la sicurezza nel processo di pacificazione. Trovare questo terzo attore risulta complesso, in quanto deve possedere alcune caratteristiche essenziali: deve avere un interesse reale per la pace, deve – nel caso – avere le capacità e la volontà di intervenire militarmente per contrastare chi abdica all’accordo, investendo, perciò, importanti risorse economiche. Come già spiegato, le potenze occidentali hanno agito tempestivamente per promuovere un cambio di regime in Libia, ma hanno fatto ben poco nella fase successiva, per avviare un vero processo di pacificazione e democratizzazione nel Paese magrebino. In questo ambito, l’Italia, che ricopre una posizione geografica strategica nel Mediterraneo, ha mostrato nella vicenda libica nuovamente la propria irrilevanza geopolitica. In virtù del legame storico che lega il nostro Paese con quello nordafricano, ci si sarebbe aspettata decisamente un’altra presa di posizione. Di conseguenza, l’auspicio per il prossimo futuro – visto l’interesse turco e russo, all’interno del contesto libico, in favore della vittoria sostanziale di una delle due fazioni e la, già citata, indifferenza americana – non può che essere rivolto ad un intervento politico da parte dell’Unione europea nell’avvio di un concreto processo di pacificazione fra le ‹‹due Libie››, sfruttando l’occasione che le elezioni politiche previste per la fine dell’anno potrebbero concedere.