Tutte le ombre dell’accordo con l’Albania

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di Alessandra Pisoni

Il 6 novembre si è svolto a Roma un incontro tra il Capo di Stato albanese, Edi Rama, e la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. I capi di governo dei due paesi hanno dichiarato di aver raggiunto un accordo per il trasferimento di migliaia di persone migranti nel territorio albanese, dove saranno ospitate in due differenti centri gestiti dalle autorità italiane per la valutazione delle richieste di asilo. Tuttavia, il testo annunciato presenta molte ambiguità. Si tratta di un protocollo di intesa tra i due Stati per la gestione dei migranti della durata di cinque anni, rinnovabile per altri cinque e con possibilità di recesso per entrambi i contraenti con un preavviso di sei mesi. L’accordo è composto da 14 articoli e regola la costruzione e la gestione di centri di accoglienza in territorio albanese che dovrebbero entrare in funzione nella primavera del 2024.

L’accordo prevede l’apertura di due centri in Albania per la gestione dei migranti: il primo nel porto di Shengjin, a circa 70km dalla capitale Tirana, dedicato alle pratiche di sbarco e identificazione, e il secondo a Gjader, nell’entroterra, in cui verranno traferiti i migranti che non sono in possesso dei requisiti per la richiesta del diritto di asilo, sul modello dei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio). Da questo protocollo sarebbero esclusi i minori, le donne incinte e altre persone fragili, un elemento dichiarato in conferenza stampa dalla Presidente Meloni, ma che non compare sul documento ufficiale dell’accordo. Le strutture, con una capienza massima di 3000 persone ciascuna, dovranno essere dirette totalmente dall’Italia, dalla costruzione all’amministrazione, così come saranno a carico dell’Italia le spese per il trasporto dei migranti e il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Il personale di sicurezza albanese assicurerà il mantenimento dell’ordine nel perimetro esterno delle aree durante i trasferimenti via terra e sarà autorizzato ad entrare nelle strutture solo in caso di emergenza, come “di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento”. Il personale italiano che verrà inviato in Albania riceverà un documento di riconoscimento e non sarà soggetto alla legislazione albanese quando in servizio, ma potrà essere processato secondo la legge albanese in caso commettesse reati fuori dai centri. Il personale italiano, se in possesso di un porto d’armi, sarà autorizzato a portare un’arma all’interno dei centri, ma non fuori. Per quanto riguarda invece la retribuzione e i contributi pensionistici, questi seguiranno la normativa italiana. Il costo totale del progetto non è chiaro, nel documento si parla di un finanziamento di 16.5 milioni di euro per il primo anno, destinato a coprire l'intera gamma di spese mediche, legali e gestionali relative ai migranti che l'Italia invierà nei due centri in Albania, mentre si attende l'approvazione delle richieste di asilo o l'esecuzione dei rimpatri verso i paesi d'origine. Inoltre, lo Stato italiano si impegna a creare in una banca albanese un fondo di garanzia in cui saranno congelati oltre 100 milioni di euro.

Secondo le autorità italiane, i due centri saranno pronti a diventare operativi entro la primavera del 2024. Tuttavia, persistono notevoli incertezze riguardo la realizzazione pratica dell'accordo, soprattutto sono state espresse preoccupazioni dai partiti di opposizione e dalle ONG impegnate nel soccorso dei migranti nel Mar Mediterraneo.

Ci sono innanzitutto problemi logistici sul trasporto di migranti e personale italiano in Albania. I migranti portati nelle strutture albanesi dovranno rimanere il tempo necessario per effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea. Qualora un migrante perda la possibilità di soggiornare nelle strutture, ad esempio nel caso in cui la sua richiesta di asilo venga rifiutata, sarà l’Italia ad occuparsi del suo trasferimento al di fuori dei confini albanesi, idealmente rimpatriandolo nel suo paese d’origine. Quanto a quest’ultima prospettiva, considerando che il rimpatrio è ad oggi uno dei problemi più ostici che il sistema di accoglienza fronteggia, la via più ragionevole da ipotizzare sarà il rientro in Italia. Sulla questione del rimpatrio si nota un altro problema legato alle tempistiche: l’accordo stima che in un solo anno potrebbero transitare fino a 36000 persone, con una stima di 3000 persone al mese. Questo significa che le richieste di asilo provenienti dai migranti presenti in Albania dovrebbero essere esaminate in 28 giorni, si tratta però di numeri lontanissimi dalle tempistiche attuali dei centri italiani.

Altro tema nevralgico è racchiuso in quella fetta di migranti esclusi da questo protocollo. Non focalizzandoci sul momento della separazione degli idonei e dei non idonei, in uno sbarco selettivo che non è chiaro in che modalità e luoghi avverrà, sembra che l’accordo strida con la Convenzione di Dublino, la regolamentazione europea per gestire i richiedenti asilo e la protezione internazionale. La convenzione di Dublino impone allo Stato dell’Unione di primo approdo di prendersi carico delle persone che arrivano. Il fatto che le procedure di flusso migratorio dovrebbero avvenire invece in un paese extraeuropeo potrebbe creare dei contrasti e per questo l’intera questione sarà analizzata dalla Commissione europea.

Possiamo concludere che questa intesa non risolva la complessa questione migratoria, ma introduca un ulteriore elemento nella già intricata gestione dei centri di accoglienza. Il governo Meloni sembra credere che spostare i centri al di là dei confini renda la questione della gestione dei migranti meno problematica. Tuttavia, le modalità di attuazione di questo accordo, oltre a essere inefficaci dal punto di vista pratico ed eccessivamente costose, confermano ancora una volta l’enorme problema che l’Italia ha nel confezionare una proposta efficiente e credibile per un fenomeno che non accenna a fermarsi.