La parità salariale di genere è legge dal 2006, ma fa un po’ ridere…

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di Lorenzo Bernardini

In Italia c’è un decreto legge del 2006 che sancisce il divieto di discriminazione tra donne e uomini nella definizione della retribuzione. Tuttavia, anche a distanza di 15 anni dall’emanazione di quelle norme, continuiamo ad osservare dati di importanti differenze salariali. Le ragioni circa questo apparente mistero sono tutt’altro che fantascientifiche o complottiste, ma si spiegano chiaramente nell’applicazione tecnica delle norme sul lavoro ed in particolare sul calcolo della busta paga di ciascun dipendente. Cerchiamo di capire cosa c’è che non va…

La busta paga non è altro che il riassunto di come viene calcolato l’importo da corrispondere al dipendente. Chi ha visto anche solo una volta una busta paga sa che questa è divisa in tre parti. Nella parte alta troviamo le anagrafiche e i valori della retribuzione, nella parte centrale troviamo tutti i calcoli legati agli accadimenti del mese (ferie, permessi, malattie, tasse e contributi,…) e nella parte bassa troviamo i contatori delle ferie, dei permessi, delle tasse, del tfr e, soprattutto, l’importo netto. Quello che ci interessa per capire da cosa è generato il divario salariale si trova nella parte alta della busta paga, ossia la definizione della retribuzione.

La Costituzione indica come ogni lavoratore abbia diritto ad una retribuzione commisurata al proprio lavoro, retribuzione che permetta “un’esistenza libera e dignitosa”. Ci si rende subito conto, dunque, delle enormi difficoltà dovute alla moltitudine di tipologie di lavoro, di ambiti e di campi. In Italia, per rispondere a questa esigenza di definizione, si ricorre ai contratti collettivi, ossia degli accordi scritti tra datori di lavoro e lavoratori (nelle vesti di associazioni di categoria e sindacati) all’interno dei quali sono indicate delle tabelle con i valori minimi retributivi. Questa è la prima voce indicata: la paga base, al di sotto della quale non si può mai scendere. La legge, infatti, sostiene che un lavoratore non possa essere pagato meno della paga minima individuata nel contratto collettivo, essa non può variare nell’importo. È dunque necessario un altro valore che componga la retribuzione in cui inserire quel quid pluris (“di più”) che lavoratore e datore di lavoro hanno concordato. Questo valore prende il nome di superminimo. Se, per esempio, vengo assunto per svolgere una mansione la cui paga base è 10,00€, ma sono molto bravo e il mio datore di lavoro vuole pagarmi 15,00€, la mia paga sarà composta da 10,00€ di paga base e da 5,00€ di superminimo. Vi possono poi essere altri valori che compongono la retribuzione, come gli scatti di anzianità o il terzo elemento.

Ecco dunque che la differenza salariale tra donne e uomini è riscontrabile proprio nel superminimo, il cui valore è assolutamente libero. La legge infatti concede la massima libertà per tutte quelle scelte che sono in favore del lavoratore. Il superminimo in particolare si considera, per lo più, come un aumento della paga base in funzione del merito, questo definito e riconosciuto dal datore di lavoro a suo giudizio insindacabile. Come può quindi la legge dettare degli obblighi di parità su una valutazione di merito? Come si può definire il merito in una legge? La parità salariale di genere è quindi soltanto accertabile nella paga base, ma questo non basta sicuramente per garantire la non discriminazione.

Immaginiamo un’azienda che debba assumere due persone che svolgono esattamente la stessa mansione e che decida di assumere un ragazzo e una ragazza, entrambi alla prima esperienza lavorativa, entrambi della stessa età. Verrebbe da dire che, se fossero definiti dei superminimi diversi, si potrebbe impugnare per discriminazione salariale, ma non è così facile. Il datore di lavoro infatti potrebbe motivare quella diversa retribuzione complessiva in virtù di una decantata maggiore disponibilità (di orario, di straordinari, di flessibilità,…) del ragazzo rispetto alla ragazza. Come si comporterebbe in questo caso un giudice? Probabilmente con un nulla di fatto. Una precisazione tecnica sul punto è doverosa: su questo argomento e su queste casistiche la giurisprudenza è carente perché i giudici non hanno ancora avuto modo di esprimersi su un numero rilevante di fattispecie.

Questa lettura tecnica non è certamente l’unica causa del problema. Si sommano almeno tre cause: il regime dei superminimi, il caso del part time e il soffitto di cristallo. Altra problematica, infatti, è quella della conciliazione vita-lavoro: le donne usufruiscono maggiormente del part time perché devono ancora accollarsi la maggior parte degli impegni familiari. Ma attenzione! Tutte e tre le problematiche trovano una sola soluzione… il cambiamento sociale!