Un piano per la rinascita dell’Italia

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di Massimiliano Perticoni

I giorni scorsi sono stati segnati da una crisi di Governo, che ha destato forti preoccupazioni anche in virtù del periodo che stiamo vivendo. E, lo avrete sentito, si è più volte citato il Recovery Plan, fino ad elevare a casus belli della crisi alcuni dissapori in merito alla sua governance. Ma questo Recovery Plan, ufficialmente rubricato come Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che cos’è esattamente?

Partiamo innanzitutto dall’ormai noto Recovery Fund, più correttamente Next Generation EU (NGEU), il programma europeo che porterà nelle casse dello Stato italiano 208,8 miliardi di euro, di cui 81,4 a fondo perduto. Ad esso si è poi affiancato il nuovissimo React-UE, che stanzia per il nostro Paese altri 13,5 miliardi, per un totale di oltre 222 miliardi di euro, che saranno versati in due tranche (70%-30%) nell’arco di tre anni (2021-2023). Una novità assoluta del NGEU è poi rappresentata dalle modalità di raccolta di tali risorse. Il Recovery Fund sarà infatti principalmente finanziato con titoli emessi dalla Commissione Europea, dunque in una forma di debito comune a tutti i paesi membri dell’UE. Manna dal cielo per il nostro paese, da sempre alle prese con un debito pubblico immenso e con le conseguenti difficoltà a finanziarsi: è stimato in oltre 20 miliardi in 10 anni il risparmio per l’Italia conseguito grazie alle condizioni più vantaggiose ottenute dall’UE¹. Occhio, comunque, a non scambiare i fondi del NGEU per denaro regalato. Oltre ai prestiti, che saranno da restituire, anche gli aiuti a fondo perduto graveranno indirettamente sul debito pubblico, in quanto ogni Stato UE deve contribuire al bilancio europeo proporzionalmente al suo peso economico nell’Unione.

Ma torniamo al PNRR, il cui compito è quello di pianificare la spesa degli aiuti europei. Chiariamo però subito una cosa. Utilizzare questi fondi semplicemente per rimborsare tutti coloro che hanno subito perdite per colpa della pandemia NON è farne un buon uso. Oltre a non essere sufficienti a tale scopo – il calo del fatturato delle sole piccole e medie imprese nel 2020 è stimato in 420 mld² – così facendo, non si risolverebbero problemi preesistenti. Se il nostro Paese è tra quelli che in Europa soffre di più i cicli economici negativi, è proprio perché il nostro sistema non è abbastanza resiliente. Servono dunque investimenti non solo in grado di generare nuova ricchezza, ma anche capaci di dotarci delle fondamenta necessarie a non far crollare la nostra economia ad ogni folata di vento. Da qui la seconda R di “PNRR”.

Un buon punto di partenza è quindi individuare i settori chiave dell’economia del domani. Guardando le trasformazioni attualmente in atto, due temi saltano subito all’occhio: digitalizzazione e sostenibilità ambientale. Che non a caso sono già stati definiti come gli obiettivi primari del NGEU. Il Recovery Fund dovrà infatti essere obbligatoriamente investito per il 37% nella transizione energetica (energie rinnovabili, economia circolare, ecc.) e per il 20% nelle infrastrutture digitali³. Settori che ben si adattano anche alle priorità dell’Italia. Per colmare il nostro gap nella digitalizzazione rispetto alle altre economie sviluppate dell’UE, ma anche per incentivare la produzione di energie da fonti rinnovabili (la penisola ha tanto potenziale non sfruttato e ciò permetterebbe di tagliare la spesa pubblica per l’energia, che rappresenta oltre la metà del totale della spesa per infrastrutture⁴). Il PNRR si articola, infatti, sui temi cardine della digitalizzazione, della transizione energetica e dell’inclusione sociale, affrontati guardando alla parità di genere, ai giovani e al divario nord-sud, tutti aspetti prioritari che peraltro hanno un fine economico, oltre che sociale⁵. L’ultima versione del documento⁶ delinea quindi sei “missioni”, ognuna ulteriormente divisa in diverse componenti, a cui vengono assegnati i fondi pro quota parte. La fetta di torta maggiore spetta alla transizione ecologica (68,9 miliardi di euro), che sconta elevati investimenti in tema di adeguamenti del patrimonio edilizio esistente. Segue il tema della digitalizzazione, trattata dal PNRR unitamente alla cultura e al turismo (46,18 miliardi). Gli altri obiettivi riguardano poi le infrastrutture per la mobilità (31,98 miliardi), l’istruzione e la ricerca (28,49 miliardi), la parità di genere e la coesione sociale ed economica (27,63 miliardi) e infine la salute (19,72 miliardi). A fare da contorno alle voci di spesa, poi, il PNRR accenna le basi per importanti riforme, tra cui quella della giustizia e del sistema tributario, giusto per citarne alcune.

Ma il contenuto del PNRR è coerente con questi ambiziosi obiettivi? La direzione sembra quella giusta, anche se la bozza fin ora circolata non entra nel dettaglio delle spese e tantomeno delle riforme. Il PNRR non è ancora definitivo: la versione finale dovrà infatti essere prima approvata in Parlamento e poi formalmente trasmessa alla Commissione Europea, entro la scadenza di aprile. C’è quindi ancora spazio per degli aggiustamenti, sempre però che tra cittadini e istituzioni si generi un sano e fruttuoso dibattito.

È poi inutile negare che il PNRR non ha solo una consistenza economica, ma è rilevante anche nella sua dimensione politica, dimensione che si palesa soprattutto nelle lotte tra le varie forze politiche per la definizione della sua governance. Anche perché la gestione di tutto questo denaro è un’opportunità che nessun partito vuole lasciarsi sfuggire, oltre che evidente opportunità di rilancio per l’Italia. Anche per questo, forse, non si è ancora arrivati ad una soluzione definitiva. Tuttavia, una governance chiara, oltre ad essere fondamentale per il buon utilizzo del Recovery Fund, rappresenta anche un requisito essenziale richiesto dalla Commissione Europea per l’erogazione degli aiuti. Servirà dunque trovare al più presto un accordo tra i principali attori, che non sacrifichi competenza ed efficienza in favore degli equilibri politici.

Per molti versi, il NGEU è destinato a fare da spartiacque tra due epoche. La storia ci offre un paragone molto interessante da questo punto di vista: l’ERP, meglio noto come Piano Marshall. Questo piano portò all’Italia, tra il 1948 e il 1951, aiuti economici per circa 1,3 miliardi di dollari⁷. Il periodo che seguì fu quello del miracolo economico, in grado di risollevare il nostro Paese dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale e di lanciarlo nell’Olimpo delle superpotenze. Oggi, rispetto a ieri, le differenze politiche ed economiche, sia interne che esterne, sono molte. Lascio ai posteri il compito di valutare la veridicità del paragone. Ma un effetto positivo potrebbe essere conseguito anche soltanto rianimando in noi la stessa voglia di riscatto e forza di volontà, la fiducia, che il Piano Marshall contribuì ad infondere ai nostri nonni nella loro impresa di ricostruzione. Basterebbe questo per rifondare la speranza nel futuro, speranza di cui l’Italia ha tanto bisogno.

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